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Due agosto, due stampelle, due binari. C’è chi sostiene che 2 sia molto più che il doppio di 1. Vedremo se ce lo confermerà questo fermo immagine su rotaie in un mattino di ordinaria, irripetibile, attesa.
Mattina, stazione
Quel giorno Marco non prese il treno.
Avrebbe dovuto partire dalla stazione del suo paesino di campagna (due binari soli, e una tettoia corta corta, che tanto, per di lì, treni lunghi non ne passavano quasi mai) con il Locale delle otto e cinquantadue per arrivare a Bologna alle dieci e venticinque.
Sempre che il treno non avesse accumulato ritardo.
L’orario era comodo, e gli sarebbe risultato comodo anche il fatto di arrivare sul primo binario, così non avrebbe dovuto salire e scendere le scale del sottopassaggio, visto che faceva molta fatica a camminare così conciato com’era, con le stampelle.
Sarebbe bastato che qualcuno (magari una bella ragazza, chissà) lo avesse aiutato a scendere gli scalini della carrozza, poi ce l’avrebbe fatta anche da solo a raggiungere il piazzale della stazione e a salire sull’autobus che lo avrebbe portato all’Istituto Ortopedico Rizzoli.
Ce l’avrebbe fatta da solo, anche con un menisco rotto.
Ma quel giorno Marco non partì.
Giulio e Serena erano seduti su una panchina della sala d’aspetto di seconda classe, e con loro una ventina di altri viaggiatori, ognuno in attesa della partenza del proprio treno: al caldo, che quella era un mattina proprio torrida, ma almeno erano seduti.
Antonio stava comperando una bibita in lattina e Gino, il barista “volante” del marciapiede numero uno gliela stava vendendo.
Salvatore e Giuseppe, due agenti della Polfer in servizio, facevano quello che, da sempre, fanno tutti gli agenti di Polizia Ferroviaria in servizio nelle stazioni: camminavano affiancati, a passo lento, volgendo intorno rapidi sguardi di controllo.
Franco stava leggendo il giornale, in piedi vicino all’imboccatura del sottopassaggio, Sandra e Marina si accingevano a scendere il primo scalino del sottopassaggio, dirette al binario sei.
Nell’aria già caldissima di metà mattino (“Scusi, mi sa dire l’ora?” “Sono le dieci e ventiquattro” “Grazie!”) Matteo, Filippo Gastone e Gaetano se ne stavano a fumare una sigaretta seduti sui loro sacchi militari, in attesa di ripartire, che purtroppo la loro licenza era già finita.
Luca e Antonella si stavano baciando ormai da più di cinque minuti, un lunghissimo bacio di addio, e non ha importanza chi, dei due, stesse partendo.
La piccola Giulia piangeva, piangeva disperatamente perché voleva un gelato (“Ora basta, Giulia! Smettila di fare capricci!”) e la sua mamma non glielo voleva comperare.
Sergio stava seguendo da vicino (non troppo vicino, se no si accorge) un signore distinto che, certamente per il gran caldo, si era sfilato la giacca e se l’era gettata all’indietro su una spalla, che dalla tasca interna si vedeva spuntare il portafoglio.
Alberto, tradito dal motorino che aveva deciso di lasciarlo a piedi proprio a metà strada, arrivò trafelato in stazione dopo un lunga corsa a piedi, e si catapultò verso la biglietteria.
(“Accidenti, c’è anche coda! Scusi, scusi, mi fa passare, per cortesia? Grazie! Scusi, mi perdoni ma sto perdendo il treno! Grazie! Permesso, permesso… Firenze, seconda classe solo andata. Che binario, scusi? Binario uno, grazie. Si, lo so che sono già quasi le dieci e venticinque, ma se corro forse faccio ancora in tempo. Grazie!”). Prese il biglietto e il resto e si diresse a testa bassa verso il binario uno.
Correndo, urtò un uomo grasso che leggeva il giornale (“Scusi!!”), scansò di poco due che si stavano baciando e per poco non travolse una bambina piccola che piangeva disperatamente.
Due poliziotti gli lanciarono una rapida occhiata e lui accelerò la sua corsa quando vide, con la coda dell’occhio, il treno ancora fermo sul binario uno. (“Dai che ce la faccio!”).
Seduti ai loro posti oppure in piedi davanti ai finestrini aperti del treno fermo sul binario (misericordia, che caldo che fa!), stavano tutti i passeggeri che non dovevano scendere a Bologna; quelli che dovevano salire in carrozza lasciavano “prima scendere”, quelli che a Bologna c’erano arrivati.
Tutti, tranne Marco, che quel giorno il treno non l’aveva preso perché, la sera prima, aveva ricevuto una telefonata (“Sono spiacente, ma il Professore è dovuto partire urgentemente per Parigi, per un consulto, e pertanto mi prega di comunicarle che il suo intervento è rimandato a fine mese. Se vuole essere così gentile da richiamare il Reparto dopo Ferragosto, le fisseremo una nuova data per il ricovero), accidenti a Parigi e al Professore, altri venti giorni con le stampelle, e con questo caldo!
Corse tanto, Alberto, che arrivò sul binario uno giusto in tempo, quando le dieci e venticinque erano passate da pochi secondi soltanto.
Giusto in tempo anche lui, come tutti gli altri.
Come da convocazione.
Stazione di Bologna, Due Agosto Millenovecentoottanta, mattina.
Marco Bottoni
(dalla raccolta Sullo stesso treno, Fara editore, 2006)
Marco Bottoni a Castelmassa (RO), oltre a curare i propri pazienti in qualità di medico, si dedica alla narrativa e al teatro. Tra le sue più recenti produzioni ricordiamo il romanzo Io e Marcellino (Montedit, 2013) e i testi teatrali Tu, lo conosci Gaber? (2013), Io, che sono un uomo inutile (Vincitore del Premio "Amici di Ron" 2017) e Siamo (tutti) un po’ matti (2017) che lo portano a calcare diversi palchi italiani. È socio fondatore dell’Associazione Culturale Teatro Amatoriale Buoni & Cattivi. È possibile seguire parte della sua attività artistica attraverso questa pagina facebook.
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